25/01/02

Burton alla Galleria Franco Noero

Jeff Burton, Untitled #130 (sofà), 2000. (Courtesy Galleria Franco Noero)

Non facile l'operazione di questo trentanovenne fotografo californiano.

Sulla scia di uno stile di vita che si potrebbe definire arakiano, Jeff inizia la sua carriera di fotografo sui set dei film pornografici girati in grande quantità nei lussuosi scenari di cui Los Angeles e dintorni paiono riempiti per ogni dove. In questi ambienti pacchiani, bellezze e belloni ipertrofici si esercitano in una forsennata ginnastica sessuale, sino alla parodia involontaria dei vari atti possibili. L'industria del film pornografico non conosce soste e sarebbe stato semplice limitarsi a registrarne i quotidiani effetti di surrealtà per ottenere un reportage di sicuro impatto.

La strada scelta da Burton è invece più intrigante e così la descrive egli stesso: "L'arte, la moda e la pornografia hanno un loro proprio livello di decenza. La gerarchia è piuttosto rigida. L'arte è stata innalzata al livello massimo, la moda ad un livello un po' inferiore e la pornografia a quello più basso. Ho voluto andare oltre e introdurre i generi tra di loro".

L'uso di tagli fotografici nei quali gli atti appaiono appena accennati, e a volte nemmeno questo; colori saturi ed atmosfere allusive; punti di ripresa bassi, come se a vedere fossero gli occhi di un bambino messo di fronte ai giochi infantili degli adulti. Queste sono le scelte di progetto che riescono a dare vita a DREAMLAND, il titolo del lavoro e del fotolibro che contiene l'insieme delle fotografie dalle quali è stata estratta la selezione in mostra, ben stampata sulla lucidissima Ilfochrome in grande formato montata su alluminio.

(vista il 25 gennaio 2002)


JEFF BURTON
10 gennaio - 10 Febbraio 2002
Galleria Franco Noero
Via Mazzini 39a, Torino


20/01/02

Rinaldi alla Libreria Agorà

Maurizio Rinaldi, Improbabili attori, 2001. (courtesy Libreria Agorà)

Il territorio in cui si muove questo lavoro di Rinaldi è quello delle sale cinematografiche di provincia, nelle quali pare si respiri un'aria da "Nuovo cinema Paradiso", fatta di piccole felicità quotidiane, come quella vissuta nell'attesa della proiezione in una sala cinematografica semivuota, scambiando due parole con gli amici.

L'autore, nato a Scandiano (RE) nel 1956, porta in sè un'eredità ineludibile per chiunque si avvicini alla fotografia in Emilia, e non solo. Mi riferisco all'ombra di Luigi Ghirri, che emerge prepotente dalla cura estrema dei dettagli e del colore, qui proposto con una tale capacità di seduzione da far sospettare che dietro gli opacissimi 30x40 esposti ci possa essere il lavoro di Arrigo Ghi, l'ormai mitico stampatore ghirriano.

Di suo Rinaldi aggiunge un punto di ripresa a livello del pavimento, probabilmente controllato grazie al mirino a pozzetto di una reflex 6x7. Questo spostamento spaziale riorganizza la visione verso una dimensione onirica, nella quale tutta la sequenza, dall'ingresso al cinema all'inquadratura rubata sul proiezionista al lavoro, si muove felicemente presentando vari risultati di notevole suggestione.

(vista il 25 gennaio 2002)


IMPROBABILI ATTORI
Fotografie di Maurizio Rinaldi
23 gennaio - 9 marzo 2002
Libreria Agorà
via Santa Croce 0/e, Torino.

14/01/02

DUPLEX

Fulvio Bortolozzo, DUPLEX, Torino, 2001 - Vallauris (France), 2002.

Penso che la fotografia sia per sua natura ambigua e si presti a continue riletture a seconda del contesto in cui viene presentata. Sfruttando questa particolarità, per me fondamentale, sto procedendo nell'indagine sui rapporti tra linguaggio fotografico e linguaggio scritto-verbale, mettendoli in relazione con la mia esperienza esistenziale.

In questo senso, DUPLEX è un proseguimento del lavoro fin qui svolto sugli aspetti della realtà visibile che suscitano il mio impulso alla ripresa fotografica (affissioni pubblicitarie, manichini femminili, riflessi, segni e segnali urbani, ecc.).

Nel caso specifico, i dìttici di DUPLEX sono progettati nell’intento di produrre significati terzi non presenti, o presenti in forma incompleta, nelle immagini di partenza.

Analogie, doppi sensi, associazioni d'idee, si intersecano tra loro alimentando una spirale di significati solo in parte esplorata dall'autore.

È ora compito di chi entrerà in rapporto con DUPLEX, ennesima duplicità possibile, completare l'operazione inserendovi la propria personale interpretazione di ciò che vi vorrà vedere.

Fulvio Bortolozzo



DUPLEX
14 febbraio - 7 Aprile 2002
Teatro Araldo
via Chiomonte 3 (ang. via S. Paolo), Torino.
Orario di apertura: dalle ore 16 alle ore 18,30

Per informazioni:
tel. 011.331.1764 (Teatro Araldo)


25/12/01

Il presepe di Vrù


Ho appreso da un trafiletto di stampa che Francesco Berta non festeggerà il Natale 2001. In suo ricordo, ripubblico qui il testo di presentazione di un album fotografico realizzato nel 1990 in 50 copie, con stampe originali in Cibachrome, di fotografie prese a Vrù nell'estate del 1984.

È tutta opera di Francesco Berta.

Questo è il nome dell'autore di un piccolo presepe meccanico dedicato ai mestieri ed alla vita dei montanari. Sessantasei anni, contadino "con qualche bestia", licenza elementare "come tutti ai suoi tempi", Francesco risiede dalla nascita a Vrù, graziosa frazione di Cantòira in Val Grande di Lanzo.

Vrù oggi è abitata tutto l'anno solo da poche persone, per lo più anziane, ma di certo nel passato traboccava di vita, come tante altre borgate alpine. Una vita dura, povera e tuttavia rimasta nel cuore e negli occhi di Francesco; e così i gesti, le attività, gli aneddoti ed i personaggi che hanno accompagnato la sua esistenza rivivono per noi nel presepe di Vrù.

Un'idea nata circa vent'anni fa, forse durante la lunga pausa invernale dei lavori agricoli. Con molta pazienza ed ingegnosità Francesco mise insieme i pezzi del suo presepe: costruì le statuine, le dipinse, le vestì con materiali di recupero e con motorini di vecchie lavatrici diede loro il movimento.

Ancora oggi aggiunge più o meno ogni anno una nuova figurina sempre ispirata ai mestieri scomparsi od alla vita di montagna. Una passione ed uno sforzo certamente meritori che potevano però essere niente più di un estroso esempio della creatività individuale, sul genere delle varie torri di Pisa fatte di fiammiferi, tanto per intenderci.

Invece l'opera di Francesco Berta va oltre. Con serena pacatezza e buon senso montanaro, Francesco ci sta regalando una preziosa testimonianza culturale. Il mugnaio, la lavandaia, l'arrotino ed ogni altro personaggio compiono i gesti caratteristici della loro attività con tale precisione che chiunque porti ancora in sé il bambino che fu, non può non ritrovarsi almeno per un momento all'interno del villaggio di Francesco.

È questo attimo prezioso che dà grande valore al presepe e sempre più persone, spinte da un crescente passaparola, ne rimangono attratte. A Vrù ogni estate aumenta il numero dei visitatori che, accompagnati dalla calorosa cortesia di Onorina, sua sorella, ammirano l'opera di Francesco Berta.

Sembra una leggenda di Natale ottocentesca ed invece è la bella realtà di un degno erede del primo ideatore del presepe, un altro Francesco di un altro paese d'Italia, Assisi, che nel 1223. a Greccio, vicino a Rieti, diede inizio alla tradizione di rappresentare, a Natale, la nascita del Cristo, dapprima con l'intervento di persone e poi con le tipiche statuine.

Spero che le stampe fotografiche originali raccolte in questo album, reso possibile dalla sensibilità dell'Azienda Acquedotto Municipale di Torino, rendano giustizia al lavoro di Francesco Berta e stimolino nel lettore il desiderio di una visita o di un ritorno, se già lo conosce, al presepe di Vrù.


Fulvio Bortolozzo
(Natale 1990)

25/10/01

Levinthal alla Galleria Marella


Il gioco dei bambini è un processo automatico di astrazione. Attraverso i giocattoli… i bambini rappresentano il dramma della vita, riducendone le dimensioni con la piccola camera oscura della loro mente
- Charles Baudelaire, in "A Philosophy of toys", The Painter of Modern Life and other Essay (London: Phaidon Press, 1964)

Per entrare meglio nello spirito dell'operazione di Levinthal, oltre alla citazione che lo apre ritengo interessante estrapolare questo passaggio dal comunicato stampa:

Levinthal inizia nel 1972 fotografando soldatini tedeschi; egli costruisce elaborati set in miniatura con soldatini di plastica ed un assortimento di modellini di costruzioni e veicoli. Successivamente affina sempre più il suo processo creativo esplorando le varie possibilità del mezzo fotografico; giunge così alla scelta dell'utilizzo della Polaroid nel suo massimo formato di stampa, ovvero 20x24 inches (51x61 cm circa). Tale tecnica gli permette di avere un solo e prezioso lavoro "unico" (differenziando ulteriormente il lavoro, poiché nel panorama contemporaneo fotografia è sinonimo di riproducibilità seriale).

In galleria oltre alle Polaroid di Barbie, sono esposte quelle di altre serie: i cowboy in miniatura di The Wild West, 1987-89; il lavoro sul razzismo di Blackface, 1995-96 e la pornografia come specchio della sessualità della società di XXX, 1999-2000.

Per inclinazione personale, basti pensare alle mie serie fotografiche, sono rimasto colpito dalle Barbie giganti, coloratissime e tiranniche deità feticiste, e dalle immagini sessuali della serie XXX, inquieto specchio di mondi interiori che agitano la labile realtà quotidiana.

Levinthal parrebbe introdurre la dimensione del gioco come strada maestra, o forse come l'unica ancora possibile, per ritrovare parti di sé sperdute nei meandri e nei vicoli ciechi della psiche. Forse lungo simili vie il ritrovamento non avverrà mai, ma il viaggio stesso sarà ricompensa sufficiente per chi vorrà compierlo.

(vista il 25 ottobre 2001)


DAVID LEVINTHAL
WHY DO YOU PLAY WITH TOYS?
26 settembre - 27 ottobre 2001
MILANO Marella Arte Contemporanea




20/10/01

Form Follow Fiction

Amy Adler, Ace, 1997. (courtesy Castello di Rivoli)

Il titolo di questa mostra, curata da Jeffrey Deitch, è una parafrasi, peraltro già usata in passato da altri in Francia, del motto modernista Form follows function. Al di là del gioco di parole, l'attuale rassegna prosegue idealmente Post Human, che Deitch curò per il Castello di Rivoli nel 1992.

La scelta dei ventuno artisti invitati ad esporre nella Manica lunga, è tesa ad evidenziare il filone di ricerca che il curatore ritiene trainante nell'ultimo decennio: gli interventi sul confine tra la realtà e la sua rappresentazione.

Le opere chiamate a sostenere la tesi critica di fondo sono in gran parte di forte impatto visivo.

Amy Adler ridisegna la figura umana di sue fotografie personali scattate anni prima, ottenendo un effetto straniante e coinvolgente al tempo stesso. Vanessa Beecroft, stella ormai fissa della costellazione artistica internazionale, propone il suo sadismo freddo con due imponenti gigantografie delle arcinote donne feticcio ed un video nel quale si può goderne i tremolii dovuti alla posizione cui sono costrette. Gregory Crewdson entra negli incubi gotici sepolti sotto il quotidiano americano della banale middle-class con stampe Ilfochrome (127 x 152 cm) visionarie e perfette dal nitore iperrealistico straordinario. Non meno potenti sono le icone degli artisti figurativi come Kurt Kauper, con le sue fiamminghe dive inventate o Margherita Manzelli, che usa anch'essa i colori ad olio con antica maestria per proporre donne deformate ed inquietanti.

Decisamente meno convincente è l'edulcorato mondo tecnomistico delle gigantografie di Mariko Mori. Tra l'altro, questa del gigantismo è ormai una costante dispendiosa e stucchevole che esalta, a volte, soluzioni non così efficaci se viste in dimensioni ridotte. Eccezionale invece la riuscita della sexy eroina robotronica e trasformista di Takashi Murakami esposta in tre modelli a grandezza naturale.

Tra le restanti opere, alcune ricorrono al linguaggio dell'installazione video, come la ricostruzione di Pierre Huyghe, condotta dell'invecchiato protagonista, della rapina del 1972 che ispirò il noto film "Quel pomeriggio di un giorno da cani", interpretato da Al Pacino.

Nell'insieme Form Follow Fiction è un'operazione riuscita e decisamente godibile. Farà discutere senz'altro il criterio seguito dal curatore, soprattutto nelle d'altronde inevitabili esclusioni.

L'unica mia riserva è sull'assunto che la impronta. In fondo, quando mai è esistita una qualsiasi forma d'arte che non fosse allo stesso tempo anche finzione?

(vista il 28 ottobre 2001)


FORM FOLLOW FICTION
17 ottobre 2001 - 27 gennaio 2002
Castello di Rivoli


Kazumasa alla Galleria Cà di Frà

Kazumasa, Senza titolo, 2001. (courtesy Cà di Frà)


Colori puri, forti e luminosi. Forme potentemente archetipiche.

La poesia plastica e cromatica di Kazumasa risiede nella felice sintesi di concezioni occidentali ed essenzialità orientali. In tempi come questi, non può che rassicurare il vedere quanto sia fertile l'incontro tra culture così lontane.

Claudio Composti scrive nella presentazione:
Nella cultura orientale, dietro semplici gesti o quotidiane azioni, si celano antiche regole di esecuzione. Secondo la filosofia Zen, un gesto non è mai "solo" un gesto: fare un tè, tagliare il pesce, richiedono nozione di tempi e movimenti ben precisi, l'arte di disporre i fiori (Ikebana) non è un semplice ornamento della casa, così come la disposizione dei mobili della casa (feng-shui) ed i colori convogliano ed assecondano, se disposti ed usati nel modo corretto, le energie positive. (...)

Partendo da una tradizione così ricca e normatrice, Kazumasa approda al pensiero occidentale, alimentato da visioni e dubbi. Le sue terracotte colorate, i suoi piccoli uomini blu, i pannelli fioriti ed il grande, lieve, quasi sospeso in un'altra dimensione gravitazionale, uomo giallo esposti a Cà di Frà ci interrogano con muta insistenza sul nostro essere qui e ora.

Grazie a Kazumasa, la visita ad una galleria d'arte contemporanea, nata all'interno di un cortile della vecchia Milano d'antan, diventa preziosa occasione di meditazione.

(vista il 25 ottobre 2001)



KAZUMASA
Dal 25 ottobre 2001
Galleria Cà di Frà, MILANO